Peligni Illustri

Pascal D'Angelo

Introdacqua (L’Aquila) 1894 – Brooklyn (U.S.A) 1932

 

C’era una volta un sogno, che spingeva gli europei a migliaia verso il continente Americano.

Era il Sogno americano, la possibilità concreta di cambiare, ... una cosa nuova, e soprattutto democratica. A tutti era data la possibilità di tentare, di azzardare un’avventura che avrebbe potuto cambiare radicalmente il corso di vite troppo spesso marchiate dall’indigenza. 

E sulle ali di questo sogno partirono in tanti, da tutta Europa, e soprattutto dall’Italia, grandissimo serbatoio di forze umane, dando vita a quella diaspora peninsulare che ancora oggi ci elegge popolo migrante secondo soltanto agli ebrei. E furono soprattutto contadini (su 880.908 italiani che emigrarono in America tra il 1891 ed il 1910, 452.059 appartenevano a questa classe sociale), 

legati alla loro terra soltanto dal sapore amaro dei sacrifici inutili.
A cavallo dell’Ottocento e del Novecento le navi provenienti dai porti europei sbarcarono a Ellis Island fiumane di gente, ognuna con il proprio bagaglio di speranza, e tra i tanti arrivò anche Pasquale D’Angelo. Aveva 16 anni, questo adolescente nato ad Introdacqua, nelle vallate appenine del selvaggio Abruzzo, e all’ombra della statua della Libertà approdò con il padre. 

Era un ragazzo sveglio, Pasquale, e sapeva scrivere e leggere, cosa davvero inusuale per i tantissimi italiani migranti. Egli era nato il 20 gennaio 1894 nella terra dei fieri Sanniti e della sua terra avrebbe conservato sempre la fierezza. Autodidatta e dotato di una volontà di ferro, il giovane si stabilì nella metropoli americana imponendosi uno studio ferreo della lingua inglese e fu premiato dalla fortuna. Conobbe infatti Mark Twain, il famosissimo autore di Tom Sawyer, che accolse sotto la sua ala protettrice il novello autore portandolo alla conoscenza del pubblico statunitense, e presentando ai lettori un romanziere dallo straordinario tratto "verista". 

Ma della tradizione verista Pascal D’Angelo (questo era il nome con il quale si presentò al grande pubblico) non aveva sicuramente i tratti patetici. D’Angelo si fece anzi conoscere ai lettori per il suo carattere brillante e presenzialista inventando, in associazione con lo stesso Twain una nuova forma di pubblicità letteraria. Twain, proprietario della stessa casa editrice che pubblicava le sue opere, credette in questo giovane scrittore italo-americano e programmò una vera e propria tournee itinerante.
Nei "readings", l’allievo tenne banco alla grandezza del maestro, e insieme misero su una specie di spettacolo per dare risalto alle proprie opere. D’Angelo si specializzò nel "Blatherskite", ovvero nella parodia di un discorso insensato, pezzo forte degli scrittori, intellettuali e umoristi che amavano esibirsi dal vivo.
Nonostante la sua vena gioviale, lo scrittore abruzzese mantenne nelle sue opere una linea ben definita al riguardo dell’esperienza migrante. Non dimenticò la ragione della sua migrazione e scrisse la propria storia mettendo su foglio le vite di migliaia di connazionali sbarcati nel Nuovo Mondo. Le sue parole sono fissate in un libro simbolo dell’emigrazione italiana d’America, quel "Pascal D’Angelo: son of Italy" pubblicato una prima volta nel 1924 dalle edizioni MacMillan, poi ristampato a Detroit dalla Gale Research nel 1968e infine a New York dalla Arno Press nel 1975. Nelle pagine di D’Angelo vi è tutta l’epopea di una generazione, che nel sogno americano trovò la forza del riscatto da una vita misera. Gli scritti di D’Angelo sono quindi sì umoristici ma allo stesso tempo carichi di rabbia nei confronti dei padroni.
"Fino a pochi anni fa i contadini abruzzesi dovevano prendere la terra perfino sulla base di un quinto: cioè l’uomo che lavorava la terra e acquistava le sementi e il concime riceveva solo un quinto del raccolto, mentre il proprietario che semplicemente gli permetteva di usare la terra ne riceveva quattro quinti. E che cos’è che salva l’uomo e lo preserva dall’essere schiacciato sotto il duro peso delle necessità? Il Nuovo Mondo!"
In queste frasi lo scrittore italoamericano, ormai affermato protagonista della vita culturale newyorchese immerge le infinite storie di un emigrazione meridionale fatto soprattutto di contadini. Lo stesso D’Angelo venne definito il poeta del piccone e della vanga, e nessuno più di lui poteva farsi carico di una memoria collettiva che rappresenta il testamento di un’epoca.
"Noi contadini in un paese straniero ci attaccavamo disperatamente gli uni agli altri. Il vivere separati dai parenti e dagli amici e il lavorare da soli ci spaventavano tutti, giovani e vecchi. Perciò preferivamo sopportare un bel po’ di sacrifici piuttosto che staccarci, o soltanto pensare di staccarci dai compaesani".
Il senso di smarrimento, le scarne informazioni, l’incapacità di comprendere la lingua, la paura di perdere i residui ceppi d’origine, tutto questo contribuì a far nascere i grandi sobborghi cittadini, soprattutto quella Little Italy protagonista di tanti racconti e film. Un mondo particolarissimo, un microcosmo delle abitudini regionali che però non mancò di differenziarsi subito nelle varie etnie presenti. E’ dei primi anni del secolo anche il velato razzismo che caratterizzò le comunità settentrionali e meridionali residenti in terra americana. Per i padroni statunitensi ci fu così anche il periodo delle preferenze: assumere un veneto, un piemontese, un ligure, anziché i siciliani, i calabresi, gli abruzzesi, era questione di primaria importanza. E i meridionali pagarono lo scotto delle loro radici anche nella terra del grande Sogno.
Molti restarono per sempre nei rassicuranti ghetti italiani delle metropoli della costa orientale. Alcuni però tentarono ancora una volta la sorte. Nell’Ovest c’era il miraggio della terra, ma per lasciare il guscio di cemento e acciaio occorreva anche tanto denaro.
Affrontare il lungo viaggio in un paese totalmente sconosciuto era quindi impresa improba per i tanti braccianti e contadini desiderosi di tornare alle loro attività avite.
"Avevamo un paio d’ore per prepararci. Andammo tutti a prendere i nostri fagotti e quell’unica valigia che conteneva le nostre proprietà comuni. Queste proprietà comuni consistevano in pentole, quattro vetusti piatti di stagno alquanto ingialliti, qualche cucchiaio, qualche forchetta per il caso che fossimo mai arrivati a farci la pasta asciutta."
Furono anni davvero speciali ,quelli del primo Novecento, per questi figli della grande migrazione italiana. E non fu soltanto D’Angelo a mettere su fogli la straordinaria vicenda umana degli italiani in cammino. Si intitolava "Peppino" il primo romanza dedicato alla diaspora peninsulare. 

A scriverlo era stato tale Luigi Ventura, nel 1886, inghiottito come tanti dalle nebbie della storia.
Risale invece al 1921 "The Soul of an Immigrant" di Costantine Panunzio. Giuseppe Cautela pubblicò invece "Moon Harvest" nel 1925. Nel 1932 venne pubblicato "The First God" di Emanuel Carnevali, mentre nel 1935 usci "The Grand Gennaro" di Garibaldi Lapolla.
Il filone verista si sarebbe fermato per qualche anno per esplodere nel secondo dopoguerra in tutta la sua effervescenza: John Fante su tutti, ma anche Guido D’Agostino, Pietro Di Donato, Jo Pagano, Michael di Capite, Jerre Mangione lasceranno sulle mirabili pagine dei loro manoscritto l’omaggio sincero ai tanti Pascal D’Angelo che solcarono il mare, memorie viventi di una civiltà italiana fuori d’Italia.

(News ITALIA PRESS – 01.06.00) Generoso D'Agnese/News ITALIA PRESS

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