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C’era
una volta un sogno, che spingeva gli europei a migliaia
verso il continente Americano.
Era
il Sogno americano, la possibilità concreta di cambiare,
... una cosa nuova, e soprattutto democratica. A tutti era
data la possibilità di tentare, di azzardare
un’avventura che avrebbe potuto cambiare radicalmente il
corso di vite troppo spesso marchiate
dall’indigenza.
E
sulle ali di questo sogno partirono in tanti, da tutta
Europa, e soprattutto dall’Italia, grandissimo serbatoio
di forze umane, dando vita a quella diaspora peninsulare
che ancora oggi ci elegge popolo migrante secondo soltanto
agli ebrei. E furono soprattutto contadini (su 880.908
italiani che emigrarono in America tra il 1891 ed il 1910,
452.059 appartenevano a questa classe sociale),
legati
alla loro terra soltanto dal sapore amaro dei sacrifici
inutili.
A cavallo dell’Ottocento e del Novecento le navi
provenienti dai porti europei sbarcarono a Ellis Island
fiumane di gente, ognuna con il proprio bagaglio di
speranza, e tra i tanti arrivò anche Pasquale D’Angelo.
Aveva 16 anni, questo adolescente nato ad Introdacqua,
nelle vallate appenine del selvaggio Abruzzo, e
all’ombra della statua della Libertà approdò con il
padre.
Era
un ragazzo sveglio, Pasquale, e sapeva scrivere e leggere,
cosa davvero inusuale per i tantissimi italiani migranti.
Egli era nato il 20 gennaio 1894 nella terra dei fieri
Sanniti e della sua terra avrebbe conservato sempre la
fierezza. Autodidatta e dotato di una volontà di ferro,
il giovane si stabilì nella metropoli americana
imponendosi uno studio ferreo della lingua inglese e fu
premiato dalla fortuna. Conobbe infatti Mark Twain, il
famosissimo autore di Tom Sawyer, che accolse sotto la sua
ala protettrice il novello autore portandolo alla
conoscenza del pubblico statunitense, e presentando ai
lettori un romanziere dallo straordinario tratto
"verista".
Ma
della tradizione verista Pascal D’Angelo (questo era il
nome con il quale si presentò al grande pubblico) non
aveva sicuramente i tratti patetici. D’Angelo si fece
anzi conoscere ai lettori per il suo carattere brillante e
presenzialista inventando, in associazione con lo stesso
Twain una nuova forma di pubblicità letteraria. Twain,
proprietario della stessa casa editrice che pubblicava le
sue opere, credette in questo giovane scrittore
italo-americano e programmò una vera e propria tournee
itinerante.
Nei "readings", l’allievo tenne banco alla
grandezza del maestro, e insieme misero su una specie di
spettacolo per dare risalto alle proprie opere. D’Angelo
si specializzò nel "Blatherskite", ovvero nella
parodia di un discorso insensato, pezzo forte degli
scrittori, intellettuali e umoristi che amavano esibirsi
dal vivo.
Nonostante la sua vena gioviale, lo scrittore abruzzese
mantenne nelle sue opere una linea ben definita al
riguardo dell’esperienza migrante. Non dimenticò la
ragione della sua migrazione e scrisse la propria storia
mettendo su foglio le vite di migliaia di connazionali
sbarcati nel Nuovo Mondo. Le sue parole sono fissate in un
libro simbolo dell’emigrazione italiana d’America,
quel "Pascal D’Angelo: son of Italy"
pubblicato una prima volta nel 1924 dalle edizioni
MacMillan, poi ristampato a Detroit dalla Gale Research
nel 1968e infine a New York dalla Arno Press nel 1975.
Nelle pagine di D’Angelo vi è tutta l’epopea di una
generazione, che nel sogno americano trovò la forza del
riscatto da una vita misera. Gli scritti di D’Angelo
sono quindi sì umoristici ma allo stesso tempo carichi di
rabbia nei confronti dei padroni.
"Fino a pochi anni fa i contadini abruzzesi dovevano
prendere la terra perfino sulla base di un quinto: cioè
l’uomo che lavorava la terra e acquistava le sementi e
il concime riceveva solo un quinto del raccolto, mentre il
proprietario che semplicemente gli permetteva di usare la
terra ne riceveva quattro quinti. E che cos’è che salva
l’uomo e lo preserva dall’essere schiacciato sotto il
duro peso delle necessità? Il Nuovo Mondo!"
In queste frasi lo scrittore italoamericano, ormai
affermato protagonista della vita culturale newyorchese
immerge le infinite storie di un emigrazione meridionale
fatto soprattutto di contadini. Lo stesso D’Angelo venne
definito il poeta del piccone e della vanga, e nessuno più
di lui poteva farsi carico di una memoria collettiva che
rappresenta il testamento di un’epoca.
"Noi contadini in un paese straniero ci attaccavamo
disperatamente gli uni agli altri. Il vivere separati dai
parenti e dagli amici e il lavorare da soli ci
spaventavano tutti, giovani e vecchi. Perciò preferivamo
sopportare un bel po’ di sacrifici piuttosto che
staccarci, o soltanto pensare di staccarci dai
compaesani".
Il senso di smarrimento, le scarne informazioni,
l’incapacità di comprendere la lingua, la paura di
perdere i residui ceppi d’origine, tutto questo contribuì
a far nascere i grandi sobborghi cittadini, soprattutto
quella Little Italy protagonista di tanti racconti e film.
Un mondo particolarissimo, un microcosmo delle abitudini
regionali che però non mancò di differenziarsi subito
nelle varie etnie presenti. E’ dei primi anni del secolo
anche il velato razzismo che caratterizzò le comunità
settentrionali e meridionali residenti in terra americana.
Per i padroni statunitensi ci fu così anche il periodo
delle preferenze: assumere un veneto, un piemontese, un
ligure, anziché i siciliani, i calabresi, gli abruzzesi,
era questione di primaria importanza. E i meridionali
pagarono lo scotto delle loro radici anche nella terra del
grande Sogno.
Molti restarono per sempre nei rassicuranti ghetti
italiani delle metropoli della costa orientale. Alcuni però
tentarono ancora una volta la sorte. Nell’Ovest c’era
il miraggio della terra, ma per lasciare il guscio di
cemento e acciaio occorreva anche tanto denaro.
Affrontare il lungo viaggio in un paese totalmente
sconosciuto era quindi impresa improba per i tanti
braccianti e contadini desiderosi di tornare alle loro
attività avite.
"Avevamo un paio d’ore per prepararci. Andammo
tutti a prendere i nostri fagotti e quell’unica valigia
che conteneva le nostre proprietà comuni. Queste proprietà
comuni consistevano in pentole, quattro vetusti piatti di
stagno alquanto ingialliti, qualche cucchiaio, qualche
forchetta per il caso che fossimo mai arrivati a farci la
pasta asciutta."
Furono anni davvero speciali ,quelli del primo Novecento,
per questi figli della grande migrazione italiana. E non
fu soltanto D’Angelo a mettere su fogli la straordinaria
vicenda umana degli italiani in cammino. Si intitolava
"Peppino" il primo romanza dedicato alla
diaspora peninsulare.
A
scriverlo era stato tale Luigi Ventura, nel 1886,
inghiottito come tanti dalle nebbie della storia.
Risale invece al 1921 "The Soul of an Immigrant"
di Costantine Panunzio. Giuseppe Cautela pubblicò invece
"Moon Harvest" nel 1925. Nel 1932 venne
pubblicato "The First God" di Emanuel Carnevali,
mentre nel 1935 usci "The Grand Gennaro" di
Garibaldi Lapolla.
Il filone verista si sarebbe fermato per qualche anno per
esplodere nel secondo dopoguerra in tutta la sua
effervescenza: John Fante su tutti, ma anche Guido
D’Agostino, Pietro Di Donato, Jo Pagano, Michael di
Capite, Jerre Mangione lasceranno sulle mirabili pagine
dei loro manoscritto l’omaggio sincero ai tanti Pascal
D’Angelo che solcarono il mare, memorie viventi di una
civiltà italiana fuori d’Italia.
(News ITALIA
PRESS – 01.06.00)
Generoso D'Agnese/News ITALIA
PRESS
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