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La coltivazione della vite e la produzione di vino hanno segnato profondamente la storia, le tradizioni e il lavoro degli abruzzesi fin da epoche remote.

In particolare, i vini della Valle Peligna hanno da sempre raccolto le lodi e l’apprezzamento di grandi autori dell’antichità.

Oggi, le favorevoli condizioni pedoclimatiche della zona consentono di ottenere vini, soprattutto rossi, di elevata qualità in grado di competere con i migliori vini a livello internazionale.

Per valorizzare questo prodotto, e soprattutto per renderlo veicolo di scoperta e promozione del territorio, sono state attivate importanti iniziative a livello istituzionale. Tra queste, l’inserimento della Valle Peligna all’interno delle Strade del Vino d’Abruzzo, sei itinerari enoturistici che guidano il visitatore nei luoghi più affascinanti dell’Abruzzo vitivinicolo, tra cantine e vigneti, alla scoperta dei tesori artistici e dei paesaggi che fanno di questa regione la “Regione verde d’Europa”; e l’inserimento di Vittorito, paese tradizionalmente legato alla produzione di ottimo vino, nell’ambito dell’Associazione Città del Vino, impegnata in un progetto di valorizzazione del turismo enogastronomico regionale italiano attraverso la riscoperta storica, artistica e naturalistica del territorio.

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Fin dalla notte dei tempi

Nel Paleolitico Superiore in Abruzzo si è verificato l’esodo della popolazione dai fondovalle alle colline di media altezza con conseguente affermazione di colture aridoresistenti come l’ulivo e la vite.Se quest’ultima era sicuramente coltivata fin da allora, la produzione di vino dovette affermarsi solo nell’Età del Ferro (circa 1000 anni a.C.).

In questo periodo sulla costa adriatica e in buona parte dell’interno si va affermando la “cultura picena” di lingua umbro-sabellica, ma con forti influenze illiriche e balcaniche. Ai Piceni, che pare coltivassero un’uva a bacca nera che potrebbe essere l’antenata dell’attuale Montepulciano d’Abruzzo, subentrarono, circa 500 anni più tardi, le cosiddette “genti italiche” derivate da un antico ceppo sannitico, fra le quali il valoroso popolo dei Peligni, abili combattenti. Tali popolazioni vivevano in autentiche “Città-Stato” confederate che riconoscevano un’unica autorità religioso-militare in caso di guerra. Esse dovettero far ben presto i conti con l’espansionismo romano; è con le guerre sannitiche (310-290 a.C.), infatti, che inizia il cosiddetto “periodo romano” per l’Abruzzo.

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L’Epoca romana

La viticoltura della civiltà romana ha conosciuto un vero progresso tecnico nel periodo che va dalle origini di Roma alla seconda metà del I secolo d.C. Preziose testimonianze ci sono fornite da Marco Porcio Catone (234-149 a.C.) uomo politico romano, che nel suo trattato De Agricoltura illustra le pratiche colturali dell’epoca che ancora oggi sono a fondamento di una produzione viticola che privilegia la qualità piuttosto che la quantità. Egli insisteva sulla necessità di valutare le condizioni climatiche e la natura del terreno prima di scegliere un vitigno da impiantare; privilegiava, inoltre, la tecnica dell’innesto piuttosto che la riproduzione delle viti per seme e raccomandava la concimazione dei terreni col letame e con la pratica del sovescio, oggi tornata in auge con la diffusione dell’agricoltura biologica.

Per quanto riguarda i sistemi di allevamento della vite, nella Valle Peligna, per un periodo piuttosto lungo, si è praticato sia l’allevamento ad alberello sia il sistema della vite maritata agli alberi, introdotto dagli Etruschi e particolarmente diffuso nell’Italia centrale e settentrionale.

Per ciò che concerne, invece, la tecnica enologica, sappiamo che gli antichi romani avevano locali per la pigiatura, che avveniva con i piedi come nelle nostre zone fino a qualche anno fa, ambienti per la fermentazione e la conservazione del vino, oltre che una serie di attrezzature. Tra queste vi era un torchio, decritto da Plinio il Vecchio nel I secolo d.C., del tutto simile a quello usato ancora oggi nelle piccole aziende, dove si produce vino per il solo fabbisogno familiare. Anche i contenitori avevano foggia diversa a seconda dell’uso. Nelle campagne dell’attuale centro di Vittorito sono stati rinvenuti frammenti di dolii in terracotta, contenitori usati nel periodo romano per il trasporto o la conservazione del vino, olio e grano, e resti di numerose villae rusticae, tra le quali alcune di proprietà della nota famiglia corfiniese degli ACCAVI. Tali ville erano delle vere e proprie fattorie che, oltre al nucleo abitato, erano provviste di stalle e, per l’appunto, di vani per la lavorazione e la conservazione di vino e olio.

Dal 91 all’88 a.C. la Valle Peligna fu sconvolta dalla violenza inaudita della cosiddetta “Guerra sociale” che le popolazioni italiche condussero contro Roma per ottenere la cittadinanza romana, eleggendo a loro capitale Corfinio, antica città peligna, ribattezzata Italia. A dispetto di questi tristi avvenimenti, l’economia della regione in tale periodo è piuttosto fiorente: vengono introdotte nuove tecniche colturali e si moltiplicano gli scambi economici e culturali.

Il poeta latino Publio Ovidio Nasone, nato nel 43 a.C. a Sulmona, cuore della Valle Peligna, esiliato da Augusto a Tomi nel Ponto sul Mar Nero, rievoca con questi versi pieni di malinconia la sua terra natale: “Pars me Sulmo tenet Peligni tertia ruris/Parva, sed inriguis ora salubris aquis…/Terra ferax Cereris multoque feracior uvis/Dat quoque baciferam Pallada rarus ager…” [Sulmona, la terza parte (del dipartimento) della campagna Peligna mi cresce/Piccola (terra) ma salubre per le acque irrigue/Terra fertile cara a Cerere e molto più fertile per le uve/Un raro territorio che dà anche l’ulivo Minervino…] (Amori, Libro II).

Qualche anno più tardi un altro poeta latino, Marco Valerio Marziale, ci propone un interessante accostamento dei vini peligni a quelli toscani: “Questa non è come l’uva che pongono sotto i torchi in terra Peligna, né è quella che nasce sui gioghi di Etruria” (Epigramma 65, Libro V), distinguendoli da quelli, a quanto pare di poco pregio, della Marsica: “I coloni peligni mandano i torbidi vini della Marsica; tu non li bere, ma lascia sorbirli al tuo liberto” (Epigramma 121, Libro XIII). Curiosa è pure l’abitudine del tempo, che ci viene riferita dal poeta, di bere i vini peligni accompagnati dalla neve che in tal modo acquistavano un sapore molto particolare (Epigramma 116, Libro XIV).

Dei vini della Valle Peligna si interessò un altro grande scrittore dell’antichità: Plinio Secondo il Vecchio, vissuto tra il 23 e il 79 d.C. Nella sua Naturalis Historia si sofferma a lungo a descrivere le pratiche agricole e i vini prodotti dai contadini nella fertile conca di Sulmona: “Tutto ciò che essi sono soliti seminare richiede al massimo l’irrigazione. Al contrario, ciò che nasce nei luoghi aridi non richiede acqua, se non strettamente necessaria. Nell’agro Sulmonese, sul pago Fabiano, le uve troppo agre vogliono essere irrigate: E (meraviglia!) quell’acqua, mentre distrugge le erbacce, fa crescere le biade: in luogo di solchi fanno canali. Nello stesso agro, affinché il freddo invernale non faccia seccare le viti, specie se ci sono la neve e il gelo, fanno accorrere l’acqua nei canali e dicono che così le riscalda; il che avviene per la straordinaria qualità delle acque di quel solo fiume, che, al contrario, d’estate, sono così fredde che a mala pena possono essere sopportate”. Plinio ci ha tramandato anche interessanti informazioni sul modo in cui gli antichi Romani bevevano, alludendo alla pratica di mescolare al vino acqua di mare e vino cotto.

Nella Valle Peligna, in età romana, venivano coltivate la selvatica “Vinifera Silvestris” e le cosiddette uve “Apiane” di probabile origine siciliana. Queste ultime avevano sapore dolcissimo e possono essere considerate a buon diritto le antenate degli odierni Moscati.

In questo periodo era ignoto il processo chimico della fermentazione, scoperto solo nel XIX secolo grazie agli studi di Louis Pasteur. Tuttavia erano in uso validissime tecniche enologiche: il mosto, dopo la pigiatura, veniva sottoposto a una prima filtrazione, seppure alquanto grossolana, dopo di che veniva posto a fermentare in contenitori di legno o di terracotta in un ambiente arieggiato e fresco. Il vino così prodotto non veniva consumato se non dopo un travaso primaverile. Molto diffusa era la pratica dell’invecchiamento dei vini rossi: gli antichi Romani non facevano mancare mai sulle proprie mense il cosiddetto vino “annoso”.

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Il Medioevo

Con l’editto di Domiziano, emanato nel 92 d.C., che anticipa di secoli disastrose politiche agricole vicine ai nostri giorni, veniva proibito l’impianto di nuovi vigneti e ordinato l’espianto di metà di quelli esistenti. Fu il principio di una triste decadenza del settore vitivinicolo, ancor più aggravata dagli scempi delle successive invasioni barbariche che provocarono epidemie e carestie durante il periodo di decadenza dell’impero romano. Infatti, se a Bisanzio, la continuità del potere imperiale permise la conservazione della tradizione colturale agraria romana, in Occidente la decadenza dell’impero determinò una regressione nel settore agricolo: anche se la coltivazione della vite non scomparve, la guerra greco-gotica e l’arrivo dei Longobardi contribuirono, se non alla scomparsa, a una drastica riduzione delle passate grandi produzioni vinicole.

Quando la coltivazione della vite sembrava ormai irrimediabilmente compromessa, ecco che a darle nuovo impulso arrivarono i monaci che valorizzarono molte zone collinari con l’impianto di nuovi vigneti.

Secondo la storiografia più recente, l’Abruzzo sarebbe stato una delle prime zone a conoscere la cristianizzazione grazie a un’importante via di comunicazione che lo collegava a Roma: la Tiburtina Valeria che, anche nel periodo della decadenza dell’impero romano, permise l’accesso costante all’Adriatico. La diffusione del Cristianesimo svolse un ruolo importantissimo nella rivitalizzazione della viticoltura: la liturgia cristiana aveva elevato il pane e il vino a immagine del corpo e del sangue di Cristo, e pane e vino, fino a qualche anno fa, venivano elargiti durante la comunione dei fedeli nelle funzioni sacre.

Resta il fatto che le campagne tornarono finalmente a ripopolarsi, un certo progresso tecnico investì la coltivazione della vite: si diffusero vigneti specializzati, quasi sempre recintati e con vite allevata ad alberello e sorretta non più dall’albero ma da un palo.

I grandi latifondi del feudalesimo laico ed ecclesiastico cominciarono a subire un inesorabile smembramento con l’affermarsi della piccola proprietà: la coltivazione della vite non fu più appannaggio delle classi abbienti, ma si diffuse largamente presso il ceto contadino divenendo, anzi, segno di elevazione e affermazione sociale, una concezione ancora presente nella cultura rurale abruzzese dei nostri giorni, secondo cui la viticoltura è l’attività agricola per eccellenza.

Un aspetto tipico dell’economia medievale è l’interesse per le buone rese quantitative piuttosto che per la qualità produttiva: i vigneti venivano piantati lungo i fiumi o in pianure umide e paludose, zone pedologicamente non vocate alla viticoltura ma che garantivano produzioni copiose.

Nel Medioevo si moltiplicano i trattati di agronomia. Certamente il più importante è quello di Pier de’ Crescenzi (sec. XIII), in cui furono gettate le basi della moderna ampelografia. Probabilmente il vitigno “Tribbiana” riportato dallo studioso bolognese come vitigno delle Marche, dovette essere l’attuale Trebbiano, già a quei tempi largamente diffuso in Abruzzo. I vini ottenuti da uve aromatiche, quali Malvasie e Moscati, erano bevuti soprattutto nelle mense aristocratiche, mentre, presso il popolo, andavano diffondendosi vini ottenuti da uve rustiche, che venivano consumati con l’aggiunta di aromatizzanti volti a migliorarne il gusto.

Questi vini artificiali venivano ottenuti mettendo a macerare, nel mosto in fermentazione o nel vino, piante particolari, nella convinzione che in tal modo si sarebbero ottenute bevande dalle proprietà terapeutiche.

Fu alla fine del Trecento che andò sviluppandosi l’uso del vino a scopo medicamentoso, in particolare i medici ne raccomandavano l’uso come digestivo e come ricostituente per malati e convalescenti.

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L’Età moderna

Nel XVI secolo in Abruzzo prevaleva la coltivazione di uve da vino a bacca bianca. Un’interessante testimonianza delle varietà allora coltivate, ci viene dal professore di botanica Andrea Bacci il quale, nel suo trattato De naturali vinorum historia, cita i vini profumati dell’Aquila: “ottenuti da uve moscatelle, ma che davano alla testa soltanto con la loro fragranza” e vini di Sulmona e dei dintorni dell’allora Lago Fucino, non ancora bonificato: “Bianchi e gialli, erano molto stimati e si ottenevano da uve moscatelle e trebulane” (Pier Giovanni Garoglio, Nuovo Trattato di Enologia, 1953, p.180). Probabilmente le uve “Trebulane” di cui ci parla lo studioso dovettero essere strette parenti delle attuali varietà di Trebbiano.

Nel Settecento la vitivinicoltura attraversa un periodo di floridezza e progresso tecnico come dimostra l’istituzione di numerose scuole agrarie e la pubblicazione di vari trattati che suggeriscono nuove pratiche enologiche atte a migliorare il prodotto per renderlo più competitivo nei confronti della concorrenza francese che già allora si presentava massiccia. Il vino abruzzese in questo periodo viene esportato prevalentemente a Venezia e in Jugoslavia.

Anche la zona della Valle Peligna conosce un periodo di grande rigoglio, come ci testimonia una interessante pagina dello storico napoletano Michele Torcia, in cui viene descritta l’arboricoltura locale: “per concepire il carpoforo carattere della superba Vallata Pelina, basta notare le sole seguenti specie di pere e mele: cioè pere-butiro, cosce-di-monache o cannelle, in Francia dette cuisses-de-dames; verde-lungo, spadoni, angeliche, spino-carpio, butirro, bergamotto, carmisino, buon-cristiano, e quelle dette 33 once, a Napoli pera-a-rotolo, dagli antichi, decumane e trilibri. Le mele poi sono poi genovesi con quei supposti gelati, apie di ogni qualità e limoncelle. Le Uve muscatella, muscatellone, zibibbo, non grosso come l’arabo Zebib di Calabria e Sicilia di cui fansi i passi psythii, ma piccolo; lacrima, Monte-pulciano, cornetta, pane (bumasta), del Vasto senza granelli, e la malvasia (…). La stessa varietà ammirasi ne’ fichi, prune, cerasi o ciliegie, frambose, fragole, arbuti, ammendole particolarmente ne’ tenimenti di Vittorito ed Introdacqua. Tutti i luoghi aprichi producono anche ottimi vini, ed imbottati nelle gelide cantine di Scanno acquistano un gusto superiore; Marziale infatti sembra preferirgli ai vini marsi” (Viaggio nel paese dei peligni, 1792, pp. 66-67).

Quando nel giugno 1796 il Re delle Due Sicilie, Ferdinando IV, venne a Sulmona per ispezionare le forze armate napoletane in previsione di un loro impiego contro le truppe francesi, fu ospitato nell’Oratorio dei Filippini, dove venne imbandito un pranzo accompagnato dai migliori vini peligni. In tale occasione, Francescantonio e Luigi De Sanctis, due fratelli, avvocati entrambi in Sulmona, pubblicarono l’opera: Notizie storiche e topografiche di Solmona con l’evidente intento di accattivarsi la benevolenza del sovrano. Anche questo testo ci fornisce una serie di interessanti notizie sull’agricoltura peligna. Questa pianura viene dappertutto irrigata da fonti, fiumi, e ruscelli, che nei più fervidi calori dell’estiva stagione la rendono verdeggiante e fertilissima. Lande produce il suo territorio tutt’i generi necessari all’umano sostentamento, ed allo scambievole commercio; menocché le arance, ed olive, le quali vi si rinvengono in piccola quantità. Produce dei vini preziosi, ed in grande abbondanza; e quindi ne provvede tutt’i Popoli, che abitano sui monti con vicini” (“Documenti abruzzesi”; Libreria Antiquaria Tonini, Ravenna 1975).

L’importanza che nell’agricoltura della Valle Peligna veniva data alla coltivazione della vite anche nell’Ottocento ci è attestata dal viaggiatore e scrittore inglese Edward Lear che fece tre viaggi in Abruzzo negli anni 1843 e 1844. Egli, in occasione della sua prima visita a Sulmona, annotò: “Quasi tutto il suo territorio è coltivato a vigne, grano, olivi e frutteti, grazie ai quali, specie per i meloni, il distretto è famoso”. Lear, inoltre, passando per Anversa degli Abruzzi, all’estrema propaggine del comprensorio pelino, ci testimonia di un’usanza assai interessante: qui, infatti, ebbe modo di gustare un eccellente vino da pasto servito con la neve, abitudine che non tutti all’epoca condividevano e di cui già aveva parlato il poeta latino Marziale a proposito dei vini peligni.

Infine, lo scrittore e storico tedesco Ferdinando Gregorovius (1821-1891) durante i suoi numerosi pellegrinaggi per la penisola italiana, fece un viaggio in Abruzzo nella Pentecoste del 1871.

Nelle sue memorie di viaggio ci ha lasciato bellissime descrizioni della vallata peligna e interessanti informazioni sulle varietà di uve locali, addirittura ritenute dallo scrittore all’altezza di quelle di Borgogna.

L’avvenimento che sconvolse l’assetto dell’economia rurale della Valle Peligna, tradizionalmente terra ricca e prospera, è stata la comparsa della fillossera, nel 1928. Si tratta di una malattia provocata da un insetto emittero della famiglia degli Afidi, originario dell’America Settentrionale. Sui vitigni della sua area di origine non provocava seri danni, mentre, una volta giunto in Europa – pare casualmente insieme alle balle di cotone commercializzate all’inizio dell’Ottocento – modificò il suo ciclo vitale attaccando esclusivamente le radici della vite provocandone la morte. Comparve per la prima volta nel 1879 nei dintorni di Como e ben presto si diffuse in tutta Italia, determinando una grave crisi della viticoltura. Gli anziani di Vittorito oggi raccontano che nel ’28 la fillossera colpì inesorabilmente le viti proprio alla vigilia della vendemmia, dopo un anno di duro lavoro. Mole famiglie furono gettate nel lastrico e là dove erano vigne fu coltivato grano, molto meno remunerativo. Il problema venne risolto più tardi con l’introduzione delle barbatelle formate da un portinnesto americano, resistente agli attacchi della fillossera, con innesto di vitigni autoctoni. Il problema fu dunque superato, ma la qualità dei vini ne risentì drasticamente. Chissà che profumi, che aromi doveva avere il vino della Valle Peligna prima della fillossera! Le viti di un tempo oggi non esistono più perché potrebbero sopravvivere senza portinnesto. Un patrimonio ampelografico di inestimabile valore, andato irrimediabilmente perduto.

La visita di Gregorovius nella Valle peligna viene ricordata dal nostro Ignazio Silone (1900-1978) che, in una bella pagina paragona il carattere della popolazione peligna a quello dei romagnoli, ed elogia l’eccellente qualità dei vini locali: “Lo sbocco di quattro valli: quelle dell’Aterno, di Forca Caruso, del Gizio, del Sagittario, e la apertura verso il mare, fanno della Piana dei peligni il cuore d’Abruzzo. Un cuore generoso perché di qui partirono i primi impulsi di rinnovamento sociale, quando altri luoghi della Regione si attardavano ancor in condizioni semi feudali. L’abbondanza insolita delle acque (Peligni acquosi, scrisse Ovidio) ha favorito tanto la fondazione di stabilimenti industriali a Bussi, quanto l’alta qualità della produzione agricola. (Vi sono nella zona persino vigneti irrigui). Ma il coefficiente decisivo è stato senz’altro il carattere degli abitanti che, per certi aspetti, a me ricordano i romagnoli.

Impossibile, trovandosi a Pratola, non parlare del vino. Quando Gregorovius venne da queste parti, pagò un soldo un litro di ottima qualità. Adesso costa di più, ma la qualità è sempre eccellente. E’ un vino schietto, limpido, secco, con un bouquet che varia da paese a paese, anzi da una cantina all’altra, secondo la diversa proporzione di uva bianca e nera che, al momento della pigiatura, viene lasciata quasi sempre al caso, e secondo la temperatura dei locali e la qualità dei tini. E un vino che non ama viaggiare perché decade nel trasporto in altra altitudine, ma esso, da solo, ben giustifica un viaggio” (Abruzzo - La Terra e la Gente, Milano 1963, p.67).

“…esso, da solo, ben giustifica un viaggio”: è con questa parole di Silone che ci piace concludere questo panorama di testimonianze per forza di cose incompleto, ma che ci dà senz’altro un’idea dell’importanza che la viticoltura ha avuto nell’ambito dell’agricoltura peligna di tutti i tempi. In ogni epoca, infatti, questa coltura ha rappresentato una vera e propria risorsa economica della zona ed è stata sempre accompagnata dalla convinzione popolare che essa potesse rappresentare un mezzo di elevazione sociale. Un orgoglio vivo negli agricoltori più anziani, ma che diventa oggi, purtroppo, sempre più raro…

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