Nel XVI secolo in Abruzzo prevaleva la coltivazione
di uve da vino a bacca bianca. Un’interessante testimonianza delle
varietà allora coltivate, ci viene dal professore di botanica Andrea
Bacci il quale, nel suo trattato De naturali vinorum historia,
cita i vini profumati dell’Aquila: “ottenuti da uve moscatelle,
ma che davano alla testa soltanto con la loro fragranza” e vini di
Sulmona e dei dintorni dell’allora Lago Fucino, non ancora bonificato:
“Bianchi e gialli, erano molto stimati e si ottenevano da uve moscatelle
e trebulane” (Pier Giovanni Garoglio, Nuovo Trattato di Enologia,
1953, p.180). Probabilmente le uve “Trebulane” di cui ci parla
lo studioso dovettero essere strette parenti delle attuali varietà di
Trebbiano.
Nel Settecento la vitivinicoltura attraversa un
periodo di floridezza e progresso tecnico come dimostra l’istituzione di
numerose scuole agrarie e la pubblicazione di vari trattati che
suggeriscono nuove pratiche enologiche atte a migliorare il prodotto per
renderlo più competitivo nei confronti della concorrenza francese che già
allora si presentava massiccia. Il vino abruzzese in questo periodo viene
esportato prevalentemente a Venezia e in Jugoslavia.
Anche la zona della Valle Peligna conosce un periodo
di grande rigoglio, come ci testimonia una interessante pagina dello
storico napoletano Michele Torcia, in cui viene descritta
l’arboricoltura locale: “per concepire il carpoforo carattere della
superba Vallata Pelina, basta notare le sole seguenti specie di pere e
mele: cioè pere-butiro, cosce-di-monache o cannelle, in Francia dette
cuisses-de-dames; verde-lungo, spadoni, angeliche, spino-carpio, butirro,
bergamotto, carmisino, buon-cristiano, e quelle dette 33 once, a Napoli
pera-a-rotolo, dagli antichi, decumane e trilibri. Le mele poi sono poi
genovesi con quei supposti gelati, apie di ogni qualità e limoncelle. Le
Uve muscatella, muscatellone, zibibbo, non grosso come l’arabo Zebib di
Calabria e Sicilia di cui fansi i passi psythii, ma piccolo; lacrima,
Monte-pulciano, cornetta, pane (bumasta), del Vasto senza granelli, e la
malvasia (…). La stessa varietà ammirasi ne’ fichi, prune, cerasi o
ciliegie, frambose, fragole, arbuti, ammendole particolarmente ne’
tenimenti di Vittorito ed Introdacqua. Tutti i luoghi aprichi producono
anche ottimi vini, ed imbottati nelle gelide cantine di Scanno acquistano
un gusto superiore; Marziale infatti sembra preferirgli ai vini marsi” (Viaggio
nel paese dei peligni, 1792, pp. 66-67).
Quando nel giugno 1796 il Re delle Due Sicilie,
Ferdinando IV, venne a Sulmona per ispezionare le forze armate napoletane
in previsione di un loro impiego contro le truppe francesi, fu ospitato
nell’Oratorio dei Filippini, dove venne imbandito un pranzo accompagnato
dai migliori vini peligni. In tale occasione, Francescantonio e Luigi
De Sanctis, due fratelli, avvocati entrambi in Sulmona, pubblicarono
l’opera: Notizie storiche e topografiche di Solmona con
l’evidente intento di accattivarsi la benevolenza del sovrano. Anche
questo testo ci fornisce una serie di interessanti notizie
sull’agricoltura peligna. Questa pianura viene dappertutto irrigata da
fonti, fiumi, e ruscelli, che nei più fervidi calori dell’estiva
stagione la rendono verdeggiante e fertilissima. Lande produce il suo
territorio tutt’i generi necessari all’umano sostentamento, ed allo
scambievole commercio; menocché le arance, ed olive, le quali vi si
rinvengono in piccola quantità. Produce dei vini preziosi, ed in grande
abbondanza; e quindi ne provvede tutt’i Popoli, che abitano sui monti
con vicini” (“Documenti abruzzesi”; Libreria Antiquaria
Tonini, Ravenna 1975).
L’importanza che nell’agricoltura della Valle
Peligna veniva data alla coltivazione della vite anche nell’Ottocento ci
è attestata dal viaggiatore e scrittore inglese Edward Lear che
fece tre viaggi in Abruzzo negli anni 1843 e 1844. Egli, in occasione
della sua prima visita a Sulmona, annotò: “Quasi tutto il suo
territorio è coltivato a vigne, grano, olivi e frutteti, grazie ai quali,
specie per i meloni, il distretto è famoso”. Lear, inoltre, passando
per Anversa degli Abruzzi, all’estrema propaggine del comprensorio
pelino, ci testimonia di un’usanza assai interessante: qui, infatti,
ebbe modo di gustare un eccellente vino da pasto servito con la neve,
abitudine che non tutti all’epoca condividevano e di cui già aveva
parlato il poeta latino Marziale a proposito dei vini peligni.
Infine, lo scrittore e storico tedesco Ferdinando
Gregorovius (1821-1891) durante i suoi numerosi pellegrinaggi per la
penisola italiana, fece un viaggio in Abruzzo nella Pentecoste del 1871.
Nelle sue memorie di viaggio ci ha lasciato
bellissime descrizioni della vallata peligna e interessanti informazioni
sulle varietà di uve locali, addirittura ritenute dallo scrittore
all’altezza di quelle di Borgogna.
L’avvenimento
che sconvolse l’assetto dell’economia rurale della Valle Peligna,
tradizionalmente terra ricca e prospera, è stata la comparsa della
fillossera, nel 1928. Si tratta di una malattia provocata da un insetto
emittero della famiglia degli Afidi, originario dell’America
Settentrionale. Sui vitigni della sua area di origine non provocava seri
danni, mentre, una volta giunto in Europa – pare casualmente insieme
alle balle di cotone commercializzate all’inizio dell’Ottocento –
modificò il suo ciclo vitale attaccando esclusivamente le radici della
vite provocandone la morte. Comparve per la prima volta nel 1879 nei
dintorni di Como e ben presto si diffuse in tutta Italia, determinando una
grave crisi della viticoltura. Gli anziani di Vittorito oggi raccontano
che nel ’28 la fillossera colpì inesorabilmente le viti proprio alla
vigilia della vendemmia, dopo un anno di duro lavoro. Mole famiglie furono
gettate nel lastrico e là dove erano vigne fu coltivato grano, molto meno
remunerativo. Il problema venne risolto più tardi con l’introduzione
delle barbatelle formate da un portinnesto americano, resistente agli
attacchi della fillossera, con innesto di vitigni autoctoni. Il problema
fu dunque superato, ma la qualità dei vini ne risentì drasticamente.
Chissà che profumi, che aromi doveva avere il vino della Valle Peligna
prima della fillossera! Le viti di un tempo oggi non esistono più perché
potrebbero sopravvivere senza portinnesto. Un patrimonio ampelografico di
inestimabile valore, andato irrimediabilmente perduto.
La visita di Gregorovius nella Valle peligna viene
ricordata dal nostro Ignazio Silone (1900-1978) che, in una bella
pagina paragona il carattere della popolazione peligna a quello dei
romagnoli, ed elogia l’eccellente qualità dei vini locali: “Lo sbocco
di quattro valli: quelle dell’Aterno, di Forca Caruso, del Gizio, del
Sagittario, e la apertura verso il mare, fanno della Piana dei peligni il
cuore d’Abruzzo. Un cuore generoso perché di qui partirono i primi
impulsi di rinnovamento sociale, quando altri luoghi della Regione si
attardavano ancor in condizioni semi feudali. L’abbondanza insolita
delle acque (Peligni acquosi, scrisse Ovidio) ha favorito tanto la
fondazione di stabilimenti industriali a Bussi, quanto l’alta qualità
della produzione agricola. (Vi sono nella zona persino vigneti irrigui).
Ma il coefficiente decisivo è stato senz’altro il carattere degli
abitanti che, per certi aspetti, a me ricordano i romagnoli.
Impossibile, trovandosi a Pratola, non parlare del
vino. Quando Gregorovius venne da queste parti, pagò un soldo un litro di
ottima qualità. Adesso costa di più, ma la qualità è sempre
eccellente. E’ un vino schietto, limpido, secco, con un bouquet che
varia da paese a paese, anzi da una cantina all’altra, secondo la
diversa proporzione di uva bianca e nera che, al momento della pigiatura,
viene lasciata quasi sempre al caso, e secondo la temperatura dei locali e
la qualità dei tini. E un vino che non ama viaggiare perché decade nel
trasporto in altra altitudine, ma esso, da solo, ben giustifica un
viaggio” (Abruzzo - La Terra e la Gente, Milano 1963, p.67).
“…esso, da solo, ben giustifica un viaggio”: è
con questa parole di Silone che ci piace concludere questo panorama di
testimonianze per forza di cose incompleto, ma che ci dà senz’altro
un’idea dell’importanza che la viticoltura ha avuto nell’ambito
dell’agricoltura peligna di tutti i tempi. In ogni epoca, infatti,
questa coltura ha rappresentato una vera e propria risorsa economica della
zona ed è stata sempre accompagnata dalla convinzione popolare che essa
potesse rappresentare un mezzo di elevazione sociale. Un orgoglio vivo
negli agricoltori più anziani, ma che diventa oggi, purtroppo, sempre più
raro…
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